Questa è la porcheria
Mi piacerebbe condividere con voi alcune riflessioni sugli psicofarmaci.
Generalmente se ne parla per demonizzarli come camicie di forza chimiche o esaltarli come farmaci salva vita. Non è raro che dietro l’uso o il non uso degli psicofarmaci aleggi anche l’idea che se si usano ci si riconosce “malati” e si dimostra l’esistenza della “malattia mentale”.
Devo dire che di tutte le tecniche e le strategie pseudo mediche usate dalla psichiatria per avvalorare le sue tesi e se stessa come branca medica, l’uso di queste sostanze è quella che simbolicamente realizza meglio tale scopo.
Siamo abituati, infatti, a credere che ad ogni farmaco corrisponda una “malattia”, per cui la semplice accettazione dell’assunzione dello psicofarmaco implica la conferma dell’esistenza della malattia mentale e il diritto/dovere degli psichiatri di curarla.
Questo è forse uno dei motivi più profondi per cui le persone, spesso, ne rifiutano l’uso. Una cosa è “addormentare” il proprio cervello volontariamente per dare pace a se stessi e provare ad affrontare le proprie esperienze, altra cosa è accettare, con l’assunzione dei farmaci, anche il fatto che le nostre esperienze, idee, sentimenti e azioni non siano più espressione del nostro modo di essere (giusto o sbagliato che sia) ma sintomi di una “malattia” su cui noi non abbiamo nessun controllo.
Se assumo uno psicofarmaco che mi faccia dormire perché da giorni e giorni sono impegnato in un confronto serrato con “voci” che gli altri non avvertono, non sto certo affermando che le “voci” non esistano o che sono frutto della mia immaginazione “malata”: sto solo prendendo tempo e fiato per poter arrivare a capire o a gestire quel dialogo.
Naturalmente fra le possibili conclusioni a cui possiamo arrivare ci può essere anche quella che siamo “malati” e abbiamo bisogno di quelle “medicine”, ma ciò, per l’appunto è una conclusione personale e non dimostra affatto che la “malattia mentale” esista, ma solo che è un’idea e una possibilità come un’altra (che alcuni scelgono volontariamente ma che ai più è imposta obbligatoriamente).
E’ chiaro che ciò che viene catalogato sotto il nome rassicurante di “psicofarmaci” in realtà è un armamentario di droghe legali che servono ad influenzare e controllare i comportamenti umani in un modo che gli altri ritengono opportuno. Così mentre ai tossicodipendenti viene impedito di usare delle sostanze per raggiungere effetti da loro desiderati, agli utenti psichiatrici si impone di usare sostanze analoghe per ottenere un effetto per lo più non desiderato.
Credo che le persone possano legittimamente usare volontariamente droghe (legali e illegali che siano) adeguatamente informati dei rischi che questo comporta, come mezzi per raggiungere gli stati di coscienza a cui aspirano. Non è tollerabile, al contrario, che altri ci “droghino” per cercare di farci aderire alla loro idea di quello che dovrebbe essere la nostra condotta o il nostro modo di pensare.
Credo che ci sia un uso “antipsichiatrico” degli psicofarmaci. Un uso che passa dall’autoprescrizione e autogestione delle sostanze nell’ambito di un percorso di gestione dei propri vissuti e delle proprie relazioni. Un uso che chiami le cose con il loro nome e che non riconosca ad essi alcuna funzione “terapeutica” o di “cura” e ai “pusher” da cui ce li si procura lo status di medici.
Può sembrare banale, ma come ci insegna la psichiatria stessa, il modo con cui chiamiamo le cose ha effetti concreti sulla realtà delle stesse cose che definiamo. Se parliamo di “terapia” riferendoci agli psicofarmaci (sia per accettarla che per rifiutarla) confermiamo la loro natura di presidio medico e della funzione sanitaria di chi li prescrive.
Gli psichiatri hanno gli strumenti legali (e la delega delle comunità sociali) per imporre le loro “terapie”. Ma ciò non basta loro. Vogliono/pretendono che le loro vittime riconoscano questo come un ‘aiuto’. Vogliono che le persone si sentano “malate”, si descrivano così e che descrivano le droghe che assumono come terapie. Solo così essi possono “sembrare” dei medici che si occupano di una malattia.
A tal proposito mi torna sempre in mente la storia di quel tale, in uno dei tanti reparti psichiatrici della capitale, che ad un certo punto decide di non sottostare all’obbligo imposto dal primario a tutti i ricoverati di recitare la formula “Questa è la terapia!” prima di ingurgitare gli psicofarmaci prescritti.
Con un’acuta invenzione, il tizio propone agli infermieri di poter cambiare formula e usare al suo posto “Questa è la porcheria !”. Gli infermieri, poco inclini alle sottigliezze filosofico-semantiche e interessati a portare a termine il loro compito nel tempo più breve possibile, acconsentono. Il tizio comincia ad usare la formula “Questa è la porcheria !”, che si allarga in un batter baleno coinvolgendo tutti i ricoverati.
“Questa è la porcheria!” diventa un atto gioioso e collettivo di insubordinazione e liberazione. Sembra annullare, come un potente antitodo, il veleno che le persone sono costrette ad ingurgitare. Ciò fino a quando la voce di questa situazione di libera espressione non giunge all’orecchio del primario che ordina che il tizio venga sedato e legato ad un letto per manifesta e reiterata pericolosità verso l’ordine psichiatrico.
Giuseppe Bucalo