Normalità e follia nella famiglia. Undici storie di donne
Che un paziente soffra di un processo patologico può essere un fatto, un’ipotesi, un’opinione o un giudizio.
Nel caso della schizofrenia, ritenere che sia un fatto è, senza alcun dubbio, falso; ritenere che si tratti di un’ipotesi, è legittimo; formarsi questa opinione, o formulare il giudizio, non è necessario.
Quando uno psichiatra fa una diagnosi di schizofrenia, egli intende dire che l’esperienza e il comportamento del paziente sono disturbati a causa di qualcosa che non va nel paziente, e che per l’appunto è causa dei disturbi di comportamento osservati. Lo psichiatra chiama questo “qualcosa” schizofrenia, poi deve chiedersi che cosa abbia causato la schizofrenia.
Noi ci distacchiamo da questo ragionamento al suo inizio.
A nostro avviso, dire che qualcuno soffre di una condizione chiamata schizofrenia è un’assunzione, una teoria, un’ipotesi, e non un fatto. Nessuno può negarci il diritto di non credere nel fatto della schizofrenia: e non abbiamo poi neppur detto che non crediamo nella schizofrenia.
Se qualcuno crede che la schizofrenia sia un fatto, farebbe bene a rileggersi criticamente le pubblicazioni in materia, cominciando dal suo inventore, Bleuler, fino ai nostri giorni. Dopo un lungo periodo di scarsa accettazione, gli psichiatri adottarono sempre di più il termine, sebbene pochi inglesi o americani potessero sapere che cosa significava dal momento che la monografia di Bleuler, pubblicata nel 1911, fu tradotta in inglese soltanto nel ’50. Ma per quanto il termine sia ormai generalmente adottato, e si insegni agli psichiatri come usarlo correttamente, il fatto che la parola dovrebbe indicare è rimasto sfuggente. Perfino due psichiatri della stessa università concordano in una diagnosi di schizofrenia solo otto volte su dieci nel migliore dei casi; l’accordo è inferiore se gli stessi psichiatri provengono da scuole diverse, e ancora inferiore se sono di paesi diversi.
Questi dati sono indiscutibili. Quando invece si tratta di mettere in discussione una diagnosi, non vi è corte d’appello. Non vi sono al presente criteri oggettivi, validi, quantificabili, né sul piano del comportamento, né in neurofisiologia, né in biochimica, ai quali ci si possa appellare quando gli psichiatri hanno opinioni divergenti.
Noi non accettiamo che la schizofrenia sia un fatto biochimico, o neurofisiologico o psicologico, e riteniamo che sia un errore evidente ritenere che lo sia, allo stato attuale delle conoscenze. Noi non assumiamo neppure l’esistenza della schizofrenia, né l’adottiamo come ipotesi. Non proponiamo per essa alcun modello.
Questa è la nostra opinione di partenza.
Il nostro quesito è: le esperienze e il comportamento che gli psichiatri considerano sintomi di schizofrenia sono più intelligibili socialmente di quanto oggi si ritenga?
Questa è la domanda che ci poniamo. E’ una domanda ragionevole?
Ci siamo proposti di illustrare con undici esempi che, se osserviamo alcuni comportamenti senza riferirli all’interazione familiare, essi possono apparire relativamente privi di senso sul piano sociale; ma se osserviamo le stesse esperienze e gli stessi comportamenti nel loro contesto familiare originario ci accorgiamo che possono essere molto più comprensibili.
Alle nostre domande non possiamo rispondere da soli. Possiamo tuttavia presentarvi i risultati essenziali della nostra ricerca su undici famiglie, e dirvi: questo è quanto noi troviamo tutte le volte che ci preoccupiamo di investigare a fondo. Si tratta di cose che già conoscevate, vi aspettavate, o sospettavate? Sono cose che accadono in tutte le famiglie? Può darsi. In ogni caso, sono cose che accadono in queste famiglie, e chi decida di studiare l’esperienza e il comportamento della persona la cui esperienza e il cui comportamento sono stati invalidati, vede che questi assumono un aspetto assai diverso da quello che usualmente viene rinvenuto dal vantaggioso (o svantaggioso) punto di vista dello psichiatra clinico. Gli psichiatri che non sono disposti a conoscere personalmente che cosa accade al di fuori dei loro ambulatori e dei loro ospedali, sono soltanto ignari della realtà; i sociologi che pensano di scoprirla studiando le cartelle mediche stanno soltanto cercando di trasformare il vile stagno della clinica nell’oro fino della statistica. E se pensano di studiare qualcosa di più che semplici pezzi di carta, la loro pretesa li copre di ridicolo.
La maggior parte delle ricerche sui processi sociali o sulla schizofrenia pongono la stessa petizione di principio delle cartelle mediche degli ospedali o delle cliniche.
Non abbiamo utilizzato alcun strumento che non avesse per fine di aiutarci a scoprire l’intelligibilità sociale in quanto tale. Siamo stati accusati di averne trovata anche troppa. Ma qual’è poi l’intelligibilità sociale del fatto che, a nostra conoscenza, non sia stato pubblicato neppure uno studio del tipo di quello che noi presentiamo né prima né dopo la sua pubblicazione? Se noi siamo nel torto, non dovrebbe essere difficile dimostrarlo: basterebbe studiare alcune famiglie e far vedere che gli schizofrenici dicono veramente soltanto cose assurde e incomprensibili.
(dalla prefazione degli autori alla seconda edizione – Londra ottobre 1969)