IN MISSIONE PER CONTO DI DIO note a margine dell’esperienza antipsichiatrica del centro di accoglienza “La Cura”
Molti di coloro che fanno volontariato, lavorano o gestiscono servizi per senza dimora pensano seriamente di esserlo, senza essere sfiorati dall’idea che questa missione (qualunque essa sia) è stata probabilmente affidata a molte di quelle persone a cui si affannano a star dietro.
Non parlo della presunzione di santità che si crede accompagni la condizione di povertà estrema. Ho ancora dubbi sulla bontà innata dei poveri, così come sulla santità dei buoni samaritani che donano generi di ogni specie durante le raccolte alimentari.
Mi riferisco al fatto che “letteralmente” tante fra le persone che affollano i centri di accoglienza sono messaggeri di Verità rivelate o autorivelate. Con buona pace dei tanti volontari che sentono dio nel cuore, loro sentono, vedono e frequentano quotidianamente ogni sorta di divinità e ne sono guidati.
Il paradosso è che spesso coloro che si mettono al servizio dei poveri, riconoscono più santità e sanità mentale ai preti e alle gerarchie ecclesiastiche, che a questi vagabondi del Dharma (come li chiamerebbe Jack Kerouac)
Eppure dovrebbero essere in grado di riconoscere il tocco divino in queste esistenze. I centri di accoglienza della Caritas, dovrebbero essere rifugio naturale per questi apostoli erranti della verità.
Lì dovrebbero certamente trovare accoglienza, cibo e calore, ma anche ascolto e condivisione del loro messaggio e della loro missione. Lì dovrebbe essere chiaro che la nostra realizzazione come esseri umani non si misura con ciò che riusciamo a fare o ad avere, ma con ciò che riusciamo ad essere. Li dovrebbe essere chiaro che la chiamata del divino stravolge sempre la tua vita e ti fa abbandonare le sicurezze materiali, gli amici, la famiglia, i tuoi averi e la logica corrente, ti fa altro da quello che eri. Li dovrebbe essere di casa il messaggio francescano. Non tanto (o solo) che la povertà è la via maestra verso dio, ma che l’unico aiuto veramente necessario per ogni essere umano è quello che lo aiuti a realizzare se stesso e la sua verità.
Quello che accade invece, nella realtà quotidiana, è che ci si prenda cura del corpo di queste persone che bussano alle porte dei centri di accoglienza o che si scovano negli antri delle stazioni e si deleghi agli esperti della mente la questione della “cura” delle loro idee definite “deliranti”, che si ritiene siano causa delle loro scelte improduttive, asociali e della difficoltà della loro inclusione sociale.
Invece che aiutarli a realizzare la loro missione, cerchiamo di convincerli a rinunciarvi.
Questo è l’aiuto che si pensa sia necessario. Aiuto non richiesto e spesso subito, ma che il senso comune ritiene giusto e umano per loro.
Non è raro vedere pubblicizzare progetti di intervento nel campo delle povertà estreme che si propongono come “innovativi” perché offrono la possibilità di accesso alle cure psichiatriche per quei soggetti che sfuggono spesso al circuito di controllo dei servizi di salute mentale.
Non avendo più riferimenti familiari e sociali stabili, di fatti, questi esseri disincarnati non sono più rintracciabili e controllabili da parte dei servizi. La novità che questi progetti introducono è quella di trasformare i centri di accoglienza e i loro operatori/volontari in garanti delle “cure” psichiatriche.
Nelle situazioni più “avanzate” si portano gli operatori psichiatrici nelle unità di strada per portare le “cure” laddove non sono richieste. Tutto sembra lecito per farli ragionare, riportarli nel pensiero comune e far loro accettare la necessità delle cure.
Ci sono centri di accoglienza che non accolgono persone che si ritiene siano affetti da disturbi psichiatrici, altri che impongono l’assunzione di terapie e la presa in carico da parte dei servizi quale condizione di accoglienza, altri ancora che li espellono perché non si attengono alle regole del centro.
Alcuni propongono rapporti stabili con i servizi psichiatrici territoriali, teorizzando o comunque non scandalizzandosi dell’attivazione di trattamenti sanitari obbligatori per i più refrattari a cambiare atteggiamento e comportamento.
Non è un caso se sempre più persone si tengono lontani dall’aiuto di questi centri e vagabondano e si rifugiano in luoghi (fisici e mentali) sempre più irraggiungibili.
Molti anni fa, quando ero un giovane studente di servizio sociale intriso dei sani principi dell’inclusione e del reinserimento sociale, la stazione ferroviaria di Messina era diventata, insieme al manicomio dove facevo tirocinio, luogo elettivo di sperimentazione delle mie buone intenzioni e di destrutturazione di tutto il sapere professionale che via via mi veniva trasmesso. Una sorta di antivirus alla omologazione del pensiero e delle pratiche che sta alla base della cd formazione professionale.
Mi capitò di imbattermi in Giovanni che seguiva i segni divini lasciati nella stazione, viaggiava senza biglietto e sentiva di doversi sdraiare a mo di crocifisso per terra per accogliere su di se tutti i peccati del mondo. Mi raccontò di quante volte era stato “soccorso” da gente di buona volontà e portato fuori dalla stazione (o al reparto di psichiatria) impedendogli di realizzare la sua missione e di poter quindi star bene e in pace con se stesso.
Mi capitò di incontrare un barbone beatamente sdraiato all’entrata della stazione dopo essere stato gentilmente invitato ad uscire dal perimetro della società civile che lì era ammessa, che mi interrogò su cosa mi spingesse ad andare così di fretta e su cosa facessi nella vita.
Un giovane assistente sociale rivoluzionario è orgoglioso di quanto fa e glielo dissi con l’enfasi dei 20 anni. “E tu che fai qui?” chiesi con aria di sfida per sottolineare tutto il mio disappunto per coloro che se ne stavano ad oziare invece di attivarsi per cambiare il mondo. “Io vi osservo” mi rispose. Questa era la sua attività e la sua missione.
In quegli anni di autoformazione, in un documentario su Poona, località indiana in cui il santone Osho aveva creato il suo quartiere generale, mi colpì un giovane che alla stessa domanda “Cosa fai qui?”, rispondeva con rivoluzionaria semplicità “Questo pianeta non ha un cuore. Io sono qui a costituire il cuore del pianeta”.
Noi siamo le nostre esperienze e i nostri incontri. Se lasciamo che essi ci attraversino, la nostra prospettiva cambia, così come il nostro punto di osservazione. Può succedere di riuscire a vedere che, parafrasando un’immagine di R.D. Laing a me particolarmente cara, l’aereo che lascia la sua formazione non sia per questo necessariamente “fuori rotta”, perché è possibile che sia l’intera formazione ad esserlo.
A volte basta cambiare il punto di osservazione per vedere quanto sia violento, inutile e dannoso il nostro aiuto. Basta distendersi a terra con Giovanni e sentire la sua pace e poi sentirsi tirato su e portato via e non potersi ribellare senza passare per folle o ingrato.
Quello che ho imparato è che ognuno sa quello che lo fa star bene e l’aiuto di cui necessita è di poterlo realizzare.
Così come ho imparato che questo pianeta ha bisogno di tutti, anche di persone inattive, che si astengono dal fare, che ci osservino e ci facciano da specchio. Persone che esplorino tutti i mondi possibili e che ne possano parlare e contaminare la realtà. Così come c’é bisogno di operai, di agricoltori e di ogni sorta di altro modo di essere.
Quello di cui non abbiamo bisogno è di una cd scienza (la psichiatria) e di persone (gli psichiatri) a cui deleghiamo il compito (o che si arrogano il diritto di) definire ciò che è possibile fare o pensare da ciò che non lo è; che possono distruggere senso e significato alle esperienza altrui definendole frutto di malattie mentali, costringendoli alla solitudine e all’esclusione, rinchiudendoli dentro strutture o dentro i loro stessi corpi o costringendoli all’esilio nelle stazioni.
Tutto ciò potrà apparirvi sensato e finanche poetico, ma posso sentire l’irritazione dei pragmatici di professione e dei professionisti dell’aiuto. Ne sento da anni le obiezioni che ormai conosco a memoria. So benissimo, ad esempio, che il mondo che descrivo è parziale che ci sono tante persone che sono invase da presenze molto meno “divine”, che assumono comportamenti difficilmente coniugabili con l’ordine sociale e familiare e con i diritti di chi vive loro accanto o che non sembra aver voglia di comunicare con nessuno e che rifiuta ogni forma di approccio o di aiuto mettendo a rischio, con le sue scelte, la propria vita.
Persone e comportamenti a cui stentiamo a trovare un senso, ma che per ciò stesso non possiamo definire incomprensibili. In realtà essi non fanno altro che far emergere tutti i nostri limiti di comprensione, di accettazione, di accoglienza e partecipazione. Per questo siamo noi a chiedere aiuto alla psichiatria, non loro ad averne bisogno. Basterebbe essere chiari con noi stessi per fare di questo aiuto “iniquo”, un errore umano comprensibile, piuttosto che un orrore e un crimine contro la nostra e altrui umanità.
Quello a cui non sono abituati i pragmatici per professione è di trovarsi di fronte ad una realtà che all’analisi politica e filosofica, faccia seguire i fatti: faccia cioè quello che si chiama “sporcarsi le mani” accettando il confronto diretto con tutte le contraddizioni umane e sociali del caso, sperimentando sempre nuove strategie per superarli.
Io lo chiamo “l’impossibile come progetto” perché tratta di rendere possibile la missione di essere quelli che si è, rifiutando di essere semplicemente quelli che dovremmo essere.
L’esperienza di accoglienza che mi vede impegnato da 10 anni nel campo dei senza dimora parte proprio dal rifiuto di quello che la società civile si aspetta da noi.
Nella migliore delle ipotesi si chiede ai centri di prima accoglienza di dare rifugio e soccorso a persone che ne sono prive. Messaggio che spesso ne sottende almeno altri due sottotraccia: togliete dalle nostre strade, dalle nostre stazioni e alla nostra vista queste presenze inquietanti; fate in modo che essi venghino integrati (cioè assomiglino e si comportino secondo le regole non scritte del vivere civile).
Nessuno è capace di definire in maniera scientifica cosa sia consentito fare o non fare, ma tutti sanno quando si supera il confine di ciò che è socialmente lecito. E’ in quel momento che la società ci chiede di intervenire, non per capire e neanche per interrogarsi sui motivi di questo illecito sociale, ma per riportare tutto allo status quo.
Questo è vero soprattutto per coloro che non sembrano particolarmente interessati a porre rimedio alla propria situazione di povertà e che antepongono le loro vicissitudini interiori alle priorità esteriori (quali nutrirsi, lavarsi, trovare riparo …).
Sono persone che non riusciamo ad “oggettivare” o “appiattire” su un bisogno materiale a cui possiamo dare una qualche risposta e sentire così di aver assolto alla nostra mission di aiuto del prossimo. Persone che non possiamo “contenere” nelle nostre regole d’accoglienza, spacciate come “educative” e che invece, il più delle volte, rispondono alle esigenze (o alla filosofia) di chi vi opera. Persone che, a mio modo di vedere, invece di essere definite e trattate come “disturbate” e “disturbanti”, potrebbero essere vissute come un’occasione e uno stimolo al cambiamento e alla sperimentazione continua.
Il centro “La Cura” nasce 10 anni fa quale struttura di accoglienza a bassa soglia aperto 24 ore su 24 per chiunque, per qualsiasi motivo, si trovi privo di dimora e/o di supporto socio-familiare.
L’idea è quella di offrire rifugio a chi si trova in strada senza emettere giudizi morali sui percorsi individuali che hanno portato alla condizione di senza dimora e senza sindacare sulla normalità o meno delle motivazioni e delle scelte razionali di ognuno.
Ciò che unisce per noi il senza dimora che ha perso casa, in seguito alla perdita del lavoro e chi se ne è disfatto perché abitata da spiriti, è la mancanza di un alloggio. Ciò che cerchiamo di fare è supportare ambedue nella ricerca di un’abitazione che non sia necessariamente una qualunque, ma che si avvicini il più possibile alle aspettative di ognuno.
Invece di ritenere semplicemente insensata la scelta interiore di chi abbandona casa perché infestata dagli spiriti, ci lasciamo coinvolgere dalla sua visione delle cose imparando a considerare l’”abitare”, anche del disoccupato, come qualcosa che non coincide necessariamente con l’”avere una casa”. Quanti di noi quando propongono un lavoro o una casa ad un senza dimora, si fanno la domanda: “Io lo accetterei ?” o “Io ci vivrei?”
Nel tentare di rendere la nostra accoglienza più vicina alle esigenze degli irriducibili, stiamo via via creando una pratica sempre più attenta i bisogni di tutti.
Comincerei dall’accordo di accoglienza. Questo viene sottoscritto concordando un tempo presumibile di accoglienza rispetto a ciò che la persona intende fare. Fra le possibilità dell’accordo c’è anche quella che definiamo “diritto all’ozio”.
Una persona può chiederci (e ricevere) accoglienza senza proporsi alcun obiettivo concreto, ma solo quello di starsene tranquillo a pensare o a rimettere insieme i frammenti della propria esistenza.
Succede che molti, interiorizzati le logiche educative di altri centri di accoglienza e nella speranza di soddisfare le nostre aspettative, amano presentarsi con la volontà esplicita di lavorare e rendersi autonomi. Volonta’ che si infrange miseramente alle prime offerte di lavoro inevase provocando la chiusura dell’accoglienza con invito per il futuro di assumersi direttamente la responsabilità dei propri bisogni.
L’accordo che gli utenti sottoscrivono raccomanda
1. il rispetto degli spazi e della privacy anche degli altri ospiti,
2. di non introdurre armi né alcool e droga nella struttura (per droga e alcool esiste una postilla informale che recita “se non in circolo nel tuo corpo” confermando l’idea che, ove non sia incompatibile con la vita di relazione, l’assunzione personale e volontaria di sostanze non preclude l’accoglienza in struttura),
3. di non usare minaccia e violenza nei confronti degli altri ospiti, della struttura e degli operatori. Per quanto riguarda questo punto dell’accordo, l’associazione tende a decodificare la violenza come forma di relazione e, quindi, se quella riferita al rapporto utente versus utente provoca l’espulsione dell’ospite che usa violenza (ma a volte anche di chi apparentemente la subisce), quando si tratta di atti violenti verso la struttura e il personale presente, normalmente si apre una riflessione autocritica e di contesto che quasi mai ha portato all’espulsione degli ospiti.
Per inciso è prassi che ogni chiusura unilaterale dell’accoglienza da parte dell’associazione, sia comunicata dal responsabile dell’accoglienza con le scuse dovute del caso. A nostro modo di vedere è profondamente ingiusto far passare come fallimento personale del nostro ospite, ciò che è imputabile alla relazione fra lui e la struttura. Ciò essenzialmente per non contribuire a creare e imprimere lo stigma di utente “difficile” a persone che nella nostra esperienza abbiamo visto essere solo “intolleranti” alle regole spesso vessatorie delle strutture di accoglienza.
L’accordo di accoglienza presenta una parte in bianco in cui vengono segnate le eccezioni e le autorizzazioni in deroga ai regolamenti interni, concordate in fase iniziale o durante l’accoglienza.
Se, ad esempio per motivi organizzativi la doccia è fissata alle 18.00 del pomeriggio, la persona può essere autorizzata a farla in altro orario senza venire meno all’obbligo di rispetto dell’accordo di accoglienza.
Il sommarsi di eccezioni su uno o più punti del regolamento di gestione interno, provoca come è naturale, la modifica delle regola generale e, quindi, adegua le regole alle persone che sono materialmente presenti in struttura in un dato periodo.
Questo è il senso di ciò che intendiamo con la frase, mutuata da una canzone di Jovanotti e che è diventata lo slogan politico dell’associazione: “le regole non esistono, esistono solo le eccezioni“.
Negli anni siamo stati accusati di essere libertini e privi di regole.
Noi molto più semplicemente e realisticamente, ridefiniamo regole diverse, in diversi momenti e in presenza di ospiti diversi, per far si che esse siano funzionali alla nostra vita di relazione e non viceversa.
Certo è un lavoro faticoso, ma quando riusciamo a farlo in assemblea con tutti gli ospiti, la forza regolante delle nostre norme, ancorché condivise, è veramente riconosciuta da tutti e vale fino a che nuovi equilibri non intervengono a modificarle.
Fra un cambiamento e l’altro dell’assetto normativo-organizzativo interno cerchiamo di garantire una certa flessibilità attraverso il riconoscimento di eccezioni individualizzate. La qual cosa, come è normale, a volte crea fra gli ospiti non poche critiche verso la gestione della struttura accusata di fare particolarità e di non trattare tutti da equali.
In realtà noi non crediamo che tutti siano uguali, ma che debbano avere uguali opportunità. Trattare tutti allo stesso modo non è né giusto, né equo, ma solo un modo per imporre ai pochi la logica della maggioranza.
In realtà il nostro scopo è trattare tutti da diseguali per far si che ognuno sia egualmente felice e sia aiutato per quello che vuole.
Io non credo che si debbano “educare” gli adulti. Dal mio punto di vista con una persona adulta ci si può solo confrontare e decidere se condividere o meno i suoi obiettivi e se si può/vuole aiutarlo a realizzarli.
Il nostro scopo non è stare a sindacare sulle soluzioni che l’altro trova per se, ma di scegliere se sostenerlo o meno, anche se e quando non le condividiamo. Noi usualmente aiutiamo l’altro aldilà della condivisione o meno dei suoi obiettivi, sempre che la sua scelta non danneggi altri che lui stesso.
Queste note sul modello di accoglienza della “Cura” spiegano perché esso è rifugio di tanti vagabondi che sfuggono alle attenzioni dei servizi e delle cure psichiatriche. Ospiti disincarnati che fanno da motore ai cambiamenti interni alla struttura di cui beneficiano i tanti ospiti la cui salute mentale non è messa in forse dalle istituzioni, ma che sono rei di mancato adattamento sociale.
Alla “Cura” trovano un rifugio in cui non sono costretti in alcun modo ad assumere terapie che non vogliono, non sono segnalati ai servizi psichiatrici, sono difesi dall’invadenza degli operatori (che non hanno accesso alla struttura). Persone che possono vivere le loro esperienze e comunicarle liberamente senza essere costrette a vivere o in famiglie che mal li sopportano o in strutture psichiatriche create solo per contenerli. Persone che, se lo vogliono, vengono aiutate a trovare casa e lavoro e ad uscire dal circuito psichiatrico. Persone che, se vogliono, possono scegliere liberamente di farsi curare e di smettere se non ritengono di averne giovamento. Persone libere e, quindi, responsabili.
Ho sempre pensato che i centri di prima accoglienza siano porte attraverso le quali le persone tentano di riaffacciarsi alla casa comune da cui sono stati espulsi. Se li tiriamo dentro senza cambiare in qualche modo il loro percorso e, per quanto possibile, le regole della casa comune, non facciamo altro che esporli al fallimento e al già vissuto.
All’inizio di questa avventura di accoglienza, ospitammo alla Cura Sandro, un mistico scalzo errante che viveva di niente. Lui, refrattario ad ogni regola, ci scelse come rifugio in cui fermarsi nelle sue pause di riflessione. In una di queste pause fui contattato dal fratello che mi chiese di approfittare del momento per farlo ricoverare in psichiatria, affinché lo si facesse tornare ad una vita normale. Stante che Sandro non riteneva di aver bisogno di quel tipo di aiuto, convocai il fratello perché si potessero confrontare. Il dialogo che ne nacque fu illuminante. Il fratello insisteva per un ricovero perché preoccupato che le scelte di vita del fratello, il suo vagabondare e vivere di elemosina non gli avrebbero permesso di avere un futuro. Sandro, che con il fratello aveva condiviso e portato alle sue estreme conseguenze l’esperienza neocatecumenale, lo tranquillizzava dicendosi però preoccupato che il fratello avesse un grave problema spirituale e avesse smarrito la retta via.
In realtà si trattava di due scelte/modi di vivere che hanno diritto di cittadinanza fra le possibilità umane.
Quando penso all’impossibile come progetto, penso all’esplorazione di modi non convenzionali e non ordinari di essere e pensare. Penso a Sandro che ha abbandonato la vita terrena e che continua ad ispirarci nella nostra quotidianità.
Penso al racconto che mi fece quella sera dell’incontro con il fratello. Avevano un orto i due fratelli. Sandro riteneva che non andasse coltivato perché dio avrebbe provveduto affinché desse i suoi frutti. Bastava avere fede. Il fratello non condivideva e andava a lavorare il campo, lamentandosi dell’atteggiamento di Sandro.
Questo creava un grave conflitto fra di loro fino a che Sandro non propose di dividere in due il campo. Una metà sarebbe stata coltivata dal fratello quando e come più desiderava. L’altra metà Sandro l’avrebbe affidata alla grazia di dio e avrebbe usufruito dei suoi frutti.
Al momento della raccolta Sandro ricavò tanti cavalfiori ben fatti ma minuscoli nelle dimensioni, mentre i cavalfiori del fratello vennero su grandi e di bello aspetto. Recatisi al mercato però nessuno comprava quei cavolfiori enormi, preferendo i piccoli frutti dell’orto di Sandro più facilmente utilizzabili e in vario modo in cucina.
Non credo in dio, ma credo che la passione di Sandro, la sua fede, abbiano mostrato allora come ora che si possono trovare strade per convivere e imparare gli uni dagli altri, strade all’apparenza irrazionali, che non capiamo finché non giungono al loro compimento ma che dobbiamo imparare a rispettare.
In tutto ciò la logica psichiatrica non fa che rendere irreversibile la frattura fra noi e gli altri e dentro noi stessi. Noi siamo lì nel momento di frattura fra Sandro e il fratello, testimoni di una separazione che dobbiamo rendere possibile per riconoscere ad ognuno il diritto di esistere senza segnare la condanna dell’altro.
Questo è ciò che chiamo “antipsichiatria”, Ciò che sta “prima” della psichiatria. Poiché lì dove c’é la psichiatria non sono possibili le persone.
Giuseppe Bucalo